Conversazione su LE PAROLE E LE COSE

Conversazione con Daniela Brogi per Le Parole e le cose, febbraio 2014
Giovanni Cioni è uno degli autori italiani di cinema documentario più apprezzati all’estero. Nato a Parigi nel 1962 e vissuto a Bruxelles, da qualche anno è tornato in Italia. Tra i suoi lavori più noti: Gli Intrepidi (2012), ispirato a Emilio Salgari, presentato a Venezia alle Giornate degli Autori; In Purgatorio (2009), dedicato al culto napoletano dei morti e delle anime del Purgatorio e premiato al Festival dei Popoli (Premio del Pubblico) e al Cinéma du Réel; Nous/Autres (2003), dedicato al rapporto tra memoria e presente attraverso il racconto di due anziani profughi ebrei; Lourdes Las Vegas (1999), un lavoro sull’immaginario degli adolescenti protagonisti di uno spettacolo teatrale di Alain Platel e Arne Sierens Bernadetje.
Per Ulisse rielabora i materiali girati nel corso di sei anni di interviste e di incontri con le persone che frequentano il centro di socializzazione Progetto Ponterosso di Firenze, dove passano ex tossicodipendenti, persone senza fissa dimora, ex carcerati, pazienti affetti da disturbi mentali e in passato trattati con il Trattamento Sanitario Obbligatorio]
Cosa è il cinema documentario?
Non posso dare una definizione, anche perché l’espressione in un certo senso è una trappola: il cinema documentario documenta, porta le prove dell’esistenza di qualcosa, e io non parto mai dall’idea di documentare qualcosa, piuttosto parto dall’idea di fare un film. Che poi lo faccia con persone vere, con quello che le persone sono e che raccontano, fa che io sia legato al cinema documentario.
Come hai iniziato?
Comprando una cinepresa Super 8, a ventuno anni; avevo già intenzione di fare cinema ma non avevo fatto una scuola specifica. Ho cominciato a filmare nel mio appartamento, anche cose in stop-motion. A pensarci, è una situazione che somiglia molto al mio cinema, perché ho iniziato senza un progetto preesistente: filmavo e vedevo cosa succedeva; e poi montavo, creando associazioni tra vari materiali girati.
Si usa spesso la distinzione realtà / finzione, definendo il cinema documentario come cinema del reale: ha senso?
No, non ha senso, perché il reale è pieno di finzioni, di quello che tu proietti sui visi, sulle persone, sui luoghi, insomma quello che ti immagini di quello che vedi; e i miei film parlano dell’immaginario: partono da lì, piuttosto che dalla rappresentazione del reale.
Però l’immaginario dei tuoi lavori è aggrappato, riportato a situazioni reali, vissute
Certamente: è fatto di carne, ossa. Per esempio, l’immaginario legato al sogno, in In Purgatorio, impregna i visi, le persone, e i muri di Napoli: non si distacca dal reale, è tutto lì, intriso. Come l’immaginario legato al viaggio di Ulisse in Per Ulisse permette ai protagonisti di raccontare al di là dello sguardo che si può portare su di loro.
Insomma il tuo modo di fare cinema in un certo senso è una resistenza al reale?
Sì, precisamente, perché il reale non è ineluttabile, dato una volta per tutte: lo puoi subire, e dunque apprezzo sempre che si possa invece cercare di reimmaginarlo, di reinventarlo. Spesso il cinema documentario documenta nel senso che ti dice le cose stanno così. È importante, certo, capire che le cose stanno così, ma è altrettanto importante capire cosa fare, nel senso che non siamo costretti a subire, anzi si può smettere, anche già facendo cambiare lo sguardo. E questo per me è importante: non è più solo un atto artistico, ma etico, politico.
Uno dei protagonisti di Per Ulisse a un certo punto dice: «la telecamera ti ruba l’anima». Quelli che racconti nei tuoi film sono persone o personaggi?
Sono persone e sono personaggi, nel senso che sono persone in carne e ossa con le loro storie, ma non necessariamente gli chiedo di rispondere della loro persona, di rispondere a delle domande. Gli chiedo se vogliono essere personaggi in un film, e magari anche inventarsi un personaggio nel quale vogliono calarsi. Alle persone con cui ho fatto Per Ulisse non ho chiesto di parlarmi delle loro vicissitudini, ma se volevano essere Ulisse, o Penelope o Telemaco, o Circe, o Calipso, o Omero. Anche negli Intrepidi parto da una possibile visione salgariana calata in un reale, e tutto si sarebbe potuto risolvere in un film sull’immaginario di alcuni ragazzi protagonisti del film, salvo che poi era bello mettere alla prova questo immaginario.
Il cinema documentario elegge spesso a materia privilegiata di narrazione gli emarginati, gli outsider, con il relativo rischio di trasformare l’oggetto ripreso in “fenomeno”. Sto parlando, insomma, del rischio dell’esotismo, e del punto di vista paternalistico. Perché spesso si sente più che altro il bisogno di raccontare le storie di un altro che quasi sempre sta al di sotto di noi (in senso materiale, culturale), e dunque è anche più vulnerabile?
Per quello che mi riguarda, ho scelto di fare un film di vite ai margini non perché mi considerassi al di sopra o più al sicuro delle persone che stanno nel film, ma perché provo un’ammirazione, un amore di fronte alla forza di vita, di sopravvivenza, che hanno. Non ho creato una barriera, non volevo. Si ha sempre bisogno degli altri per raccontare se stessi, ma perché in ognuno degli altri riconosco qualcosa di me. Questo per quanto riguarda almeno il mio approccio alla realtà di emarginati. Hai ragione a parlare del rischio del pittoresco che ci può essere in questo tipo di cinema, ma allora il nocciolo della questione è nell’atteggiamento, nella posizione che assume chi fa il film. È lì che molto spesso si cade nell’esotismo, appunto, anche senza volerlo. Per esempio, a Napoli ho evitato sistematicamente tutto ciò che faceva luogo comune napoletano, e penso dipenda molto dal grado di coinvolgimento in cui ti metti. Del resto, la barriera è dovuta anche al dispositivo cinematografico stesso: la telecamera, la troupe, e ci vuole delicatezza – spesso manca.
Anche per questo tu giri da solo?
Soprattutto per questo, sì, e anche perché lavoro in maniera molto intuitiva: sento il momento in cui giro o non me la sento di girare. Per dire: su Per Ulisse ho passato molto tempo senza nemmeno portare una telecamera: serate a giocare a carte, a parlare, stare lì – poi magari prendevo appunti a casa, quando tornavo. Ho avuto una discussione con una filosofa francese sul fatto che in Per Ulisse io non creassi nessuna distanza col vissuto delle persone che sono nel film: lei mi diceva che è come stare in un mondo di persone che sono alla deriva, e questo le creava sconcerto. Ma io penso che questa sua posizione sia abbastanza tipica di una visione del cinema per cui il regista è una specie di guida dello spettatore, e una guida anche rassicurante: ti dice cosa devi pensare, fa che tu non ti senta troppo coinvolto emotivamente. Ma in fondo questo rimprovero era proprio quello che cercavo.
Veniamo ad aspetti più autoriali, per esempio al lavoro di postproduzione del taglio, del montaggio, della composizione: «da dove iniziare, da dove terminare questo racconto..» dice Ulisse, ma questo vale molto pure per il cinema documentario
Io vengo da una formazione autodidatta: ho cominciato montando me stesso nei film in super 8, lavorando più come se fosse una composizione musicale, piuttosto che narrativa. In questo senso, per il montaggio e il modo in cui concepisco la struttura dei miei film mi sento più ispirato al cinema muto che non al cinema documentario tradizionale. E in questo senso la scoperta di Pelešjan – un cineasta armeno – negli anni Novanta mi ha molto aperto la visione del cinema come composizione di tempi e spazi diversi. Io ho delle visioni abbastanza definite, già prima di girare, di come voglio montare assieme certi materiali – per dire il rapporto tra le riprese frontali delle “capuzzelle” [i crani delle vittime di peste e di colera conservati al Cimitero delle Fontanelle e oggetti di culto e di preghiera], e le soggettive delle strade di Napoli, che sono una specie di Leitmotiv di In Purgatorio. O, in Per Ulisse, il rapporto tra momenti di vita a Ponterosso e il mare. E, ancora, il rapporto con il silenzio, al livello del montaggio del suono. Via via che giro comincio già a montare delle parti, a fare delle prove, che magari mostro anche. Ciò non toglie che in una fase finale il montaggio vero e proprio lo faccio con un montatore, una montatrice – negli ultimi film con Aline Hervé –, perché è importante avere un confronto con uno sguardo altro che mi aiuti ad andare fino in fondo all’idea, proponendo nuove cose, rimettendo in discussione quello che io penso. Perché arriva il momento in cui il film non è, né deve essere più soltanto tuo, ma esce, comincia a avere una vita propria, e dunque te ne devi quasi disfare. Deve appartenere anche ad altri. Mi piace molto come nella fase di montaggio il montatore si appropria del film, che prende una vita propria come quando un figlio diventa adolescente.
Prima dicevi che filmare gli altri è anche un modo di parlare di se stessi: qual è il punto, se esiste, oltre il quale questo gesto non può andare? Dove comincia l’altro?
Non saprei rispondere … C’è una frase, che non è quella nota di Rimbaud “Je est un autre”, ma “io sono uno degli altri” – non mi ricordo più di chi sia. L’ho letta tanto tempo fa e ho sempre continuato a pensarci, tant’è vero che, in fondo, è una frase chiave di un film come In Purgatorio. Questa frase mi serve per spiegare che l’altro comincia dove inizia la sua libertà: tu non usi l’altro per dimostrare qualcosa che già sai, ma vai alla scoperta dell’altro, ti confronti con l’altro perché ti fa scoprire qualcosa di te.
Molti autori – cito uno dei più importanti: Errol Morris (The Unknown Known, 2013) hanno grande fiducia nell’uso del linguaggio documentario per la ricostruzione di una verità oggettiva; tu, invece, sembri pensare più che altro a realizzare un progetto di poetica
Sì, nel senso che la poesia è una forma di conoscenza, di relazione che stabilisci col mondo. Non mi riconosco nella pretesa di oggettività, ma non per dire che non esista una verità: non è relativismo il mio, credo però che mettersi in relazione è uno strumento di conoscenza più importante che pretendere di dirti come stanno le cose. Io posso solo dire come attraverso il lavoro che faccio si potrebbe immaginare che le cose non siano ineluttabili. In, più, ragionando ancora sull’oggettività, facendo il film, tu fai parte comunque del mondo che descrivi.
In questo senso, spesso i tuoi lavori si sviluppano più intorno a uno sguardo visionario che documentario­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­. Per esempio ne Gli intrepidi, ma anche in Lourdes Las Vegas, dove una vera pista d’autoscontro diventa uno spazio in cui immaginare una storia
Sì, è proprio così. Io penso che il cinema intero sia visionario –io mi sono sentito molto ispirato da Hitchcock. Quando giro un’immagine c’è tutto quello che c’è nell’immagine, ma anche il fuori campo, che non è solo il fuori inquadratura. Cerco nei miei film di caricare le immagini di tutto quello che non c’è nelle immagini. Mi torna in mente che anni fa, quando stavo a Bruxelles, un amico, un artista cileno che faceva un lavoro sulle tracce della tortura, mi chiese di filmare le persone nude a fior di pelle – con un obiettivo macro filmavo le cicatrici, facendole diventare una specie di paesaggio astratto legato a quello che raccontavano. Non ho più nemmeno il materiale, ma è una cosa a cui mi succede di ripensare. Filmare è cercare di vedere quello che la persona sta immaginando. Non mi piace illustrare, mai metterei in un montaggio immagini descrittive, preferisco che il film riesca a evocare l’immaginario fuori campo nello spettatore. Per questo citavo Hitchcock. La protagonista di Nous/Autres mi chiese, dopo la visione del film, come avessi fatto a ricostituire la stanza dove aveva vissuto. Io non l’ho fatto: è chiaro che nel film questo luogo – una casa abbandonata – è un decoro, e lei lo sapeva benissimo, ma mi disse che rivedendo il film aveva rivisto il luogo dove aveva vissuto nascosta durante la guerra.
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