CLANDESTINITÀ DEL REALE – maggio 2011

Tutto può essere ripreso e diffuso in tempo reale nel mondo intero, e condiviso, aggirando le censure, e questo è una conquista. Ho seguito i primi flashmob in Tunisia messi su facebook, le immagini girate col cellulare in Siria, a Teheran, il blog da Bengazi…

Il paradosso di uno che fa cinema “del reale” è il sentimento che questo reale, col quale stai lavorando, non esista. O che te lo stai inventando. Parlo per me, per l’esperienza di due dei miei film.

Mi sono inventato Jan e Helga, due anziani profughi ebrei a Bruxelles, nel mio NOUS/AUTRES?

So che loro esistono, né metto in dubbio il racconto della loro vita – anche quando lui sembra inventare, da affabulatore, ma affabulatore sincero.

O quando a lei sembra che quello che le è successo (la fuga, la guerra) sia accaduto ad un’altra, al personaggio di un film.

O quando sembra muoversi in un altro tempo, in un altro spazio, nel quartiere dove vive e dove abitano profughi di oggi.

Mi sono inventato una Napoli composta di sogni, di premonizioni, di racconti di morti, con un dio-regista, con personaggi veri (ma veri come in un film) che sembrano in attesa di sapere se sono esistiti…?

Sono due film molto reali, con personaggi veri, luoghi vissuti, interni, strade di Bruxelles, di Napoli.

Molto reali, appunto, ma come se fosse un reale invisibile, anacronistico, non riconoscibile, e dunque clandestino.

Quando spiegavo il progetto di NOUS/AUTRES, alcuni commissioning editor non riconoscevano le figure di due profughi nelle persone “qualunque” che erano. Non avevano niente di esemplare. Non capivano che era questo reale che mi interessava; la distanza tra il proprio vissuto e il quotidiano, tra la memoria e quello che siamo.

Nelle riprese di IN PURGATORIO mi è capitato di imbattermi in troupe che facevano servizi per i TG sulla “guerra del Rione Sanità”. Avevo l’impressione di essere sotto assedio.

Di fronte al coro dell’urgenza emotiva di quest’attualità, che senso aveva la mia erranza cinematografica solitaria?

Invece è proprio da qui che bisogna partire, penso. Dal fatto che siamo immersi in un universo mediatico che sembra imporre cosa sia il reale e l’attuale.

E allora prendo posizione rispetto a questo consumo dell’urgenza. Come cineasta magari anacronico, inattuale.

Come cineasta che non parla dei temi obbligati. In modo obbligato. Che va a cercare il resto, magari anche l’irreale…

Mi spiego. Sento che si parla di molti soggetti, veri, urgenti, attuali (la lista è variabile) ma che la verità di questi venga fagocitata e annullata in una forma di narrazione che non disturba: perchè spiega e predigerisce, gestisce l’emozione secondo la prassi. Illustra quello che già sappiamo in anticipo. Rassicura perchè non coinvolge, è un reale che si constata, magari si denuncia, ma è consumo.

Penso che l’immagine vada aldilà delle spiegazioni.

L’immagine lavora con il fatto di confrontarci con la complessità del reale, le sue contraddizioni. Immergersi nei suoi meandri. Viverne l’esperienza.

Tu filmi l’altro per parlare di te stesso e di ogni essere umano. Facendo il film crei il reale, il reale di ciò che avviene, di ciò che fai apparire (anche di invisibile oltre l’immagine)

Il reale è fatto di ciò che vedi, di ciò che non vedi, dei sogni, della solitudine, dell’altro, delle finzioni, di come ti coinvolge.

Scopri che il reale non è ineluttabile, come vorrebbero farti credere – ed è da questa scoperta che nasce la resistenza.

(un testo scritto su richiesta di Giona Nazzaro per uno speciale su Micromega)