IL FILM COSTELLAZIONE

Un estratto esteso del testo pubblicato da Silvio Grasselli su BIANCO E NERO, la rivista del Centro Sperimentale di Cinematografia, settembre 2016, dal titolo Nuove forme del documentario narrativo. Il montaggio digitale in Daniele Vicari e Giovanni Cioni.

“Tra quelli che figurano nella “nuova onda” attiva tra la fine degli anni ’90 e i primi anni del 2000 – Alina Marazzi, Alessandro Rossetto, Guido Chiesa, Gianfranco Pannone, e altri ancora – non sono in molti ad aver saputo o potuto sviluppare lungo un tempo esteso un percorso continuo e coerente di articolazione di uno stile quanto Daniele Vicari e Giovanni Cioni. Essi rappresentano due casi esemplari per alcune precise ragioni: la capacità di progettare e produrre secondo una prospettiva internazionale; l’inserimento del loro lavoro all’interno del più ampio contesto delle pratiche e delle poetiche del cinema documentario europeo; un’esplorazione e una verifica personali e rigorose, delle possibilità offerte dai processi oltre che dalle tecnologie digitali, mai considerati e impiegati in modo immediato o ingenuo, ma posti al centro della riflessione e della ricerca formale.

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Giovanni Cioni: il montaggio virtuale e il film costellazione

Nato a Parigi, formatosi in Belgio, vissuto a Napoli e Lisbona per stabilirsi infine sulle montagne del Mugello, in Toscana, Cioni è, come pochi altri, un autore cinematografico europeo. Organizzatore e animatore culturale durante gli anni a Bruxelles, declina la sua personale attività di filmmaker frequentando accanto alla forma film anche la video installazione1. Da cineasta irregolare e anarchico, conosce e pratica, in alcuni casi anche senza la collaborazione di un montatore, tanto il montaggio pellicolare alla moviola quanto quello elettronico lineare su diversi formati magnetici, non costretto dalla contingenza storico-tecnologica, ma per la necessità della sperimentazione tecnica ed estetica. Tutti i suoi documentari di lungometraggio diretti tra la fine degli anni ’90 e gli anni 2000 – frutto di una eterogenea collezione di modi produttivi assai diversi e distanti tra loro, dalla committenza televisiva all’autoproduzione fino alla più canonica produzione attraverso il finanziamento di istituzioni pubbliche – sono montati esclusivamente in digitale.

Come racconta di aver imparato alla scuola di Bruxelles dove ha iniziato il suo percorso di filmmaker, Cioni però non dice “montaggio digitale” ma “montaggio virtuale”2. In questa scelta è ragionevole rintracciare già una implicita dichiarazione programmatica: il montaggio digitale come configurazione di un’ipotesi mai definitiva, come operazione immateriale più vicina alla multiforme liquidità del pensiero che alla materica finitezza della pellicola sulla moviola. Il montaggio digitale considerato soprattutto quale strumento per disegnare legami e relazioni tra i materiali del film come in una costellazione: ogni singolo pezzo, ogni frammento, ogni immagine, ogni suono si trova coinvolto in una rete di forze che diventa organismo tridimensionale e non univoco di senso.

Giovanni Cioni è un viaggiatore perpetuo, un esploratore che letteralmente raccoglie lungo il suo percorso appunti su appunti, usando la pagina come deposito concreto di un archivio asistematico di materiali dai quali sempre inizia il lavoro di ogni suo film. Non la time-line con le clip pronte per la costruzione del film sullo schermo: è la pagina bianca il primo palinsesto, la prima superficie operativa dove Cioni dispone e monta i primi materiali del film. Non di rado alla matita si aggiunge la videocamera, alle annotazioni scritte si aggiungono quelle registrate in immagini, in un accumulo di segni e di codici che sarà poi la fase del montaggio a risemantizzare in un nuovo sistema di rapporti pianificati dalle libere associazioni di un pensiero non-lineare. Per questa natura reticolare e sferica dei film di Giovanni Cioni, i metodi canonici di analisi ed esposizione attraverso lo strumento della citazione frammentaria sono per lo più inutilizzabili, perché recidere e sradicare la parte dalla rete alla quale essa è collegata equivarrebbe a condannarla a una conseguente e inevitabile desemantizzazione. È il caso di Temoins, Lisbonne, Aout 00 (2003), film nato come raccolta d’appunti audiovisivi sparsi registrati durante l’esplorazione errante della città di Lisbona e solo successivamente riaggregati intorno a un filo narrativo parzialmente finzionale. Il film conserva la forma frammentaria e centrifuga del taccuino, tanto che la parola, che nella colonna sonora è quasi ridotta a trama acustica, diventa immagine tra le immagini grazie al recupero dell’elemento primordiale cartello/didascalia.

Cinema del frammento, il cinema di Cioni non si limita al diarismo puro: tanto il corpo del film viene dall’assemblaggio di pezzi (disomogenei e disarmonici per progetto), quanto la materia del discorso vi si produce per la sovrapposizione di numerosi strati che si accumulano in trasparenza l’uno sull’altro, senza mai elidersi reciprocamente. Sulla persona – “l’attore sociale” – Cioni sovrascrive un personaggio teatrale o letterario (un personaggio dell’Odissea, una figura mitica da un romanzo di Salgari, il doppio fittizio dell’”attore sociale” protagonista) in modo che esso sia trasfigurato senza perdere la sua originaria identità. Il montaggio tra queste due “superifici identitarie” produce l’apparizione di un’identità terza, un’immagine dialetticamente critica ed esorbitante. Così pure sull’immagine documentale della situazione reale Cioni fa in modo che si incrosti un’allucinazione che conduce alla fine all’allusione/citazione critica di un extra-testo3. Così Nous autres (2003) – ritratto fuori norma di due esuli ebrei a Bruxelles – e Gli intrepidi (2013) – fantasmagoria adolescenzial-diaristica sull’immaginario salgariano – sembrano gli estremi opposti di un medesimo movimento: nel processo di sovrascrittura dell’immaginario (letterario/teatrale) al reale e, all’inverso, di scoperta del reale dentro il fittizio, accostando e facendo risuonare gli uni con gli altri, istrioni di professione e “attori sociali”, Cioni usa il montaggio digitale come traduttore simultaneo di un pensiero che procede associando brutalmente pezzi iconici, frammenti culturali, brandelli biografici «lontani e giusti»4. Il risultato è una prosa cinematografica sempre tendente alla stilizzazione poetica che non evita mai di mostrarsi come congerie di frammenti raccolti lungo un percorso di ricerca. Il film non è che l’ipotesi di una collezione ordinata in sistema dei frammenti legati a loro volta in raccolte simili a costellazioni.

Il “montaggio virtuale” è dunque il processo che serve a Cioni per superare l’idiosincrasia del singolo pezzo e costruire la mappa del film disegnata dalle decine di relazioni e riferimenti, dai confronti e dalle allusioni, dai rimandi, le ripetizioni e le contraddizioni che tengono insieme i frammenti.

Due film hanno reso noto Cioni in Italia per poi deciderne un nuovo rimbalzo sugli schermi europei: In purgatorio (2009) è dedicato al racconto del culto delle anime del purgatorio, uno dei più antichi e popolari presso i napoletani, destinato ormai alla definitiva scomparsa; Per Ulisse (2013) è invece un adattamento sui generis dell’Odissea attraverso la trasfigurazione delle storie di deriva esistenziale che Cioni incontra in un centro diurno a Firenze. In entrambi Cioni frantuma i luoghi che attraversa e le identità dei suoi interlocutori per poi ricomporli, dopo averli inseriti nella costellazione di rimandi e relazioni con altri luoghi e altre identità (teatrali/letterarie), in una nuova e arbitraria configurazione. In entrambi allestisce una fantasmagoria combinatoria nella quale ogni pezzo è al contempo enunciazione e interpellazione critica, indagine sulla figura del testimone/narratore; ogni singola relazione tra un pezzo e l’altro è al contempo narrazione e messa in dubbio della possibilità di qualsiasi racconto. Così, in un vertiginoso gioco di specchi, il narratore (Cioni) si scambia di posto con il narrato (i suoi protagonisti), fino a che il film trova la sua dimensione di verità nel momento in cui perde tutti i più espliciti ed elementari riferimenti al reale.”

1 Per un approfondimento biofilmografico, primo e più completo riferimento è il sito che lo stesso regista ha allestito: www.giovannicioni.org (consultato in data 11/04/2016). Si vedano anche i cataloghi dei festival che l’hanno ospitato con riferimento particolare a Festival dei Popoli 50 (2009), 53 (2012), 54 (2013) e Vision du Reél (2011).

2 La citazione è tratta dalle mie conversazioni con il regista.

3 Per un approfondimento sul processo del montaggio e dello scambio tra “vero” e fittizio cfr. Raffaello Alberti, Il film a venire. Di alcuni motivi nel cinema di Giovanni Cioni in Daniele Dottorini op. cit., pp. 85-99.

4 Secondo quanto Jean-Luc Godard sostiene in più d’un’occasione e in particolare nel suo film JLG/JLG Autoritratto a dicembre (1994), ricalcando le parole del poeta surrealista Pierre Reverdy: «Un’immagine non è forte perché è brutale o fantastica, ma perché l’associazione di idee è remota. Remota, e giusta». Cfr. Pierre Reverdy, Oeuvres complètes: Nord Sud, Self Defence et autres écrits sur l’art et la poésie (1917-1926), Parigi, 1975, pp. 73-75.